Non mi era mai capitato di entrare in una chiesa completamente vuota e prendere posto in prima fila. In questa giornata è evidentemente tutto eccezionale. Mi godo qualche istante di solitudine. Durano poco. In dieci secondi le navate sono già piene di parenti e semisconosciuti che continuano a elargire bisbigli.
Prima che Don Matteo faccia il suo ingresso sull’altare, mi si avvicina un uomo bianchiccio, di cui ignoro il nome. Mi tende una mano sudaticcia. L’odore del più economico dei dopobarba è meno sopportabile del suo alito cattivo.
«Bisogna farsi forza. La vita ci mette alla prova. Lei sta in un posto migliore adesso. La solitudine è motivo di crescita.»
Quelle frasi banali e legate male tra loro, anche se sembrano dei pensierini di bambini alle elementari non le trovo del tutto sbagliate. Capisco che quell’uomo ha vissuto qualcosa di simile a quello che sto vivendo. Ciò basta a fargli credere di potermi dare una “vicinanza” esclusiva. L’osservo. Un impercettibile ghigno, da qualche parte tra labbra e guance, sembra dirmi: «Anche tu patirai come me.»
Pensa di conoscermi, anche meglio degli altri presenti. Illusi!
Il suono del campanello spinge l’uomo a filarsela, mentre il prete fa l’ingresso con un passo dismesso. Muove le gambe accentuando i piegamenti delle ginocchia. I piedi scivolano sul pavimento, il capo è rivolto verso il basso. Sembra un rallenty cinematografico. Elegante e triste.
Quel tipo di camminata deve essere uno degli argomenti cardine del seminario. Impareranno quali sono i giusti atteggiamenti corporei per ogni occasione. Dopotutto anche loro hanno un’audience da soddisfare.
Tutti si alzano, poi appena il prete inizia con i riti d’introduzione, si risiedono. Io sono rimasto seduto. Non per un atto di sovversione, ma perché oggi sembro essere giustificato di qualsiasi reazione.
Per venti minuti il mio cervello si isola. Torno presente che il prete è nel pieno della sua omelia.
«Non dobbiamo dimenticarci che la morte è un passaggio alla vera vita.»
Trattengo con difficoltà un sorriso. Mi rendo conto che potrebbe dire qualsiasi cosa… per me sarebbe soltanto un brusio. Fingo di essere attento, ma in effetti comincia un flusso di pensieri scollegati. Ho scritto “si dispensa dai fiori”? Domani mi devo ricordare di annullare la scintigrafia. Devo scaricare Glovo. Penserei qualsiasi cosa pur di non avere la mente presente qui.
Giro lo sguardo per la prima volta da quando la messa è iniziata. Nei posti della navata laterale c’è Tonia… che faccia tosta che ha avuto a venire.
Sì, è vero, una volta lei e Lisa erano inseparabili. Ma ormai sono cinque anni che hanno perso i rapporti. Accanto a lei c’è un tipo apatico e rinsecchito, deve essere il compagno. Appena si accorge che la guardo, Tonia poggia le mani sul pancione. Come se non fosse già abbastanza evidente.
Credo sia qui solo per dimostrarmi che ho fatto la scelta sbagliata. Almeno ha la decenza di non piangere.
In realtà anche io non ho versato alcuna lacrima e non mi sono nemmeno sforzato più di tanto. Proprio non mi viene di far finta che le cose andassero bene. Da quando io e Lisa eravamo tornati insieme, il suo unico obiettivo era stato quello di farmela pagare. Dovevo soffrire, in tutti i modi possibili.
Rivolgo di nuovo lo sguardo verso Tonia, lei sembrava non aspettare altro. È sempre stata una calamita e i miei sensi polveri di metallo. Sembra che gli anni per lei non passino mai. A parte qualche chilo in più per la gravidanza tutto il resto è invariato. I lunghi capelli neri, gli occhi dal taglio orientale, i vestiti che risaltano le forme del seno e dei fianchi sono gli stessi di quando mi trasmetteva forti scosse di piacere.
Proprio non riesco a evitare di guardarla. Allarga gli angoli delle labbra, alza le sopracciglia. Fatico a rimuovere certi pensieri poco consoni alla situazione, lei mi dà l’impressione di fare lo stesso. Forse avrei davvero dovuto scegliere lei. Eravamo molto simili, mentre con Lisa mi sentivo sempre inferiore. E poi era una donna troppo bella, non ero in grado di lasciarla. Più passavano gli anni e più diventava bella. Fino a quel maledetto giorno.
«Lisa perdonami.»
«Da quanto tempo va avanti?»
«Non credo sia il caso di rispondere.»
«Da prima del nostro matrimonio?»
«Metti giù il coltello.»
«Lo metto giù, ma tu rispondi!»
«Prima.»
«Che cazzo mi hai sposata a fare?»
L’avevo sposata perché era sempre stata mia e così doveva essere in eterno. Tonia invece era stata solo una perversione. Ricordo quella prima volta al mare. Tonia si infilò nella cabina, mentre mi cambiavo il costume. Ero impaurito ed eccitato allo stesso momento.
«Il modo in cui ci guardiamo non lascia spazio a dubbi… ci desideriamo… e tanto! Lasciamoci andare, anche solo per una volta… diventerebbe il nostro intimo segreto.»
Quanto furono flebili le mie resistenze. Non spiccicai una sola parola. Nel buio della cabina le permisi di farmi quello che voleva. Tolto lo sfizio, dopo due-tre volte, avrei dovuto fermarmi. Sono stato presuntuoso, ma credevo di riuscire a gestire entrambe le cose. Dopo tre anni di relazione clandestina pensavo non venissi mai scoperto. Invece Tonia voleva a tutti i costi stare con me. Al punto di dire alla sua migliore amica che aveva fottuto con suo marito, nel loro salotto, sul divano appena comprato. Che frana che sono!
Ci siamo. Don Matteo agita in aria l’aspersorio. Goccioline d’acqua santa ticchettano sulla bara. Quelli delle pompe funebri portano fuori Lisa. In quel momento sento recidersi di netto il nostro legame. Capisco che si è presenza anche in una cassa di mogano. Vorrei correre, aprire la bara e stringerla ancora. Non poterlo fare mi strazia.
Mi piego in tre. Ginocchia sul marmo, testa appoggiata sulle cosce, il culo sui talloni. Tengo le braccia strette attorno al mio busto. Provo a trattenere le budella o, comunque, a sconfiggere la sensazione che mi stiano fuoriuscendo. Qualche presente prova a sollevarmi. Ma ho perso le forze. Verso più lacrime di quanto abbia mai fatto in tutta la mia vita.
Penso alla mia Lisa, ai gesti che solo io conoscevo. I sorrisi la domenica mattina, quando la svegliavo con la colazione a letto con gli immancabili cornetti al pistacchio. A quel figlio mai arrivato e poi, non più voluto. Penso al primo periodo delle chemio. A come abbiamo sofferto. Io più di lei, perché infinitamente più fragile. All’ultima notte insieme prima di buttarsi dal settimo piano.
«Me lo devi, è colpa tua se mi sono ammalata» mi disse.
Quanto male mi hanno fatto quelle parole. Perché credevo anche io fosse così. Il tumore era seguito a una profonda depressione. Da qualche parte avevo letto che una mente malata fa ammalare anche il corpo. Una sorta di negazione di “mens sana in corpore sano”.
«Sono stanca…»
«Lo so e mi dispiace.»
«Se mi ami aiutami a farlo, perché da sola non ci riesco.»
Non avevo mai visto tanta voglia di morire. Scrisse una lettera. Poi, come mi aveva chiesto, l’accompagnai verso la ringhiera del balcone.
Mi diede il più tenero dei baci. Salì su uno scaletto per sistemare la tenda. A quel punto io dovevo darle una leggera spinta in modo che perdesse l’equilibrio. Doveva sembrare un incidente. Non so dove trovai il coraggio. Mi abbassai raso al pavimento, in modo che dietro i paramenti in muratura nessun vicino potesse vedermi. Sollevai il piede della scala, spingendo il suo peso verso l’esterno. Cadde sull’asfalto, insieme con la pioggia. Prima dell’impatto lanciò un urlo come quando era sulle montagne russe. Dopo il fracasso sentii altre urla provenire dalla strada. Si respirava un’aria trita, di terra secca appena bagnata. Mi accovacciai nell’angolo del balcone. Rannicchiato con le braccia che reggevano le ginocchia portate al petto. Ancora in posizione fetale, sudato e tremante, lessi la lettera di un fiato. Nelle ultime righe mi chiedeva scusa per non aver voluto lottare ancora e per quella figlia mai avuta. L’odore di incenso mi riporta al centro di quella navata. Sento un’onda solcarmi il petto. Si fanno spazio in me la certezza di non averla meritata e la voglia di lasciarla libera per il resto dell’eternità. Prendo la pistola dalla tasca, me la punto alle tempie. Sono pronto a farmi saltare il cervello su un altare, in modo da commettere il più grande dei peccati. Un botto, l’eco, poi il silenzio. Eppure non ricordo di aver premuto il grilletto. Mentre cado sul pavimento vedo Tonia ridere. Sento un tanfo di dopobarba e incenso. Un bruciore fortissimo all’addome mi dilania. Quando le mie spalle toccano il marmo infuocato, capisco che sto per perdere i sensi. Cerco di tenere gli occhi aperti, di non dormire. Poi una mano bagnata mi tira su la testa afferrando la nuca.
«Assassino. Lisa la meritavo più di te. Eccoti l’inferno.»