Alla mia età alcune dimostrazioni d’affetto sono fastidiose. Non perché il tempo mi abbia reso un uomo schivo o insensibile, anzi, il mio cuore non ha mai perso il rosso vivo dell’amore. È che proprio non mi va che le persone si preoccupino per me. Mi fanno sentire un rottame più di quanto non lo sono già.
«Papà ti lascio sul lungomare di Serapo, poi ti passo a prendere più tardi.»
«Sì.»
«Nel frattempo accompagno Chicca a Formia e vado a fare delle commissioni.»
«Ma non potevo venire in bici?»
«Non ricominciare, ne abbiamo già parlato…»
«Da qui sono dodici chilometri. Quando tu non eri ancora nata, io e tua madre li facevamo sei volte al giorno.»
«Pà, quando io non ero nata, non c’erano fighetti in SUV che sfrecciavano a centocinquanta all’ora sulla statale. Dai! Così stiamo tutti più tranquilli e non ti affatichi.»
Mia figlia Paola è una donna eccezionale, ma in certi momenti la detesto. Soprattutto quando mi tratta come il figlio maschio che non ha mai avuto. Ma non si ricorda che le cambiavo i pannolini?
«Lasciami dalla “Signora”, ho appuntamento con i miei amichetti lì.»
Odio quella tavola calda, ma so che Paola è più tranquilla a sapermi a giocare a briscola con altri vecchiacci come me.
Entro e mi siedo sulla panca di legno accanto alla vetrata. Così posso vedere le manovre sgangherate di Paola mentre si allontana.
La giovane barista mi sorride mentre sta già attrezzando vicino alla macchina del caffè. Adoro il rumore del dosatore della miscela e il vapore che si alza quando abbassa il braccio meccanico. Adoro i rituali in generale. Sfoglio il giornale per leggere le notizie sportive, il tempo che le mie dita diventino nere di stampa che il caffè è pronto sul banco. L’odore è corposo. Chiedo di portarmi un po’ di latte freddo, aggiungo lo zucchero di canna e giro il cucchiaino in senso antiorario. Poi lo mando giù in un sorso. Saluto ed esco.
Per fortuna le mie gambe, al contrario della mia memoria, sono ancora buone, quindi mi incammino verso la spiaggia.
La sera alle sei è l’orario che preferisco per il mare. Il sole è sopportabile, i lidi si sono svuotati e la lunga distesa di sabbia diventa riserva di una razza in via di estinzione: i romantici.
Prima di dirigermi verso il mio luogo esclusivo, passo per lo stabilimento La Perla. Gianni, il proprietario, è un amico, non ricordo più da quanti anni. Passo a salutarlo ogni volta, compro una bottiglietta d’acqua con le bollicine e mi faccio dare un telo.
I passi sulla sabbia mi stancano, complici anche questi fastidiosi sandali di gomma con le chiusure in velcro. Cammino in diagonale verso la Montagna Spaccata. Lì i granelli diventano pietre, la passeggiata più comoda. Inoltre ho il mio personale scoglio, credo che ormai la roccia abbia preso la forma del mio fondo schiena.
La corrente marina oggi è forte. Sono abbastanza distante da tutti per potermi godere il rumore delle onde che si infrangono nei vari solchi o contro la montagna.
Stendo il telo sullo scoglio, mi siedo e porto indietro la schiena poggiandola alla parete rocciosa. L’equilibrio è precario. Vedo due piccole incavature che sembrano perfette per le mie mani. Mi allungo, meglio sorreggermi. Se cado poi che dico a Paola?
Appena infilo l’indice sento al tatto una superficie liscia. Forse una conchiglia? A Chicca potrebbe far piacere. Mi piego un po’ su di un lato e riesco in pochi secondi a estrarre una bottiglietta di vetro. Sembra che qualcuno l’abbia lasciata appositamente per custodirla. All’interno si scorgono dei fogli arrotolati. Li prendo e li dispiego. Sono una decina di pagine di quadernino. Si sente ancora l’odore di carta e anche se la salsedine le ha rese impiastricciate, non sono ancora ingiallite. Forse non sono lì da troppo tempo. La grafia è precisa e leggera. Immagino siano appunti di una donna, perché, nonostante l’inchiostro blu di una stilografica, non ci sono macchie tra un rigo e l’altro. Sono troppo curioso per evitare di dare almeno una sbirciata.
“Miei cari, vi scrivo qui le cose che da troppo tempo non riesco a dirvi.”
Dopo il primo rigo ripiego i fogli e interrompo la lettura. Guardo il sole che inizia a toccare l’orizzonte. Bevo qualche sorso d’acqua e qualche respiro profondo. Provo a convincermi che dovrei riporli di nuovo dove li ho trovati, quelle parole non mi appartengono. Mi interrogo sul perché fossero lì e poi sulla reale esclusività di quel posto. Chiudo gli occhi. Nemmeno li riapro che sono immerso in quella lettura. Leggo cinque pagine di getto, poi devo interrompere di nuovo. Alzo gli occhi al cielo. Paola si accorge sempre di tutto e non voglio che stia male perché ho pianto. Rileggo di nuovo dall’inizio. Sento mie quelle parole. Riescono a spaccarmi in due il cuore, come la montagna alle mie spalle, apertasi, dicono, con il terremoto successivo alla morte di Cristo.
“Vi ricordate quella volta che rimanemmo senza corrente. Papà con la sua cassetta degli attrezzi diceva che da ragazzo aveva fatto l’elettricista… Bastava spegnere il forno e riattaccare il contatore, invece fece rimanere senza corrente tutto il condominio. Per due giorni mangiammo a lume di candela, la sera leggevamo insieme un libro, invece di attaccarci alla tv. A voi, miei piccoli, feci il bagnetto scaldando l’acqua sul fuoco. Siamo stati sempre una bellissima famiglia. Siamo sempre stati bravi a ridere di tutto, soprattutto ci divertivano le piccole disavventure. Dobbiamo ricordarcene sempre.”
Rileggendo più volte queste righe piango e sorrido, perché molte cose mi fanno pensare alla mia Anna. Ho una gran voglia di riabbracciarla.
Mentre il sole è ormai del tutto scomparso dietro l’orizzonte e una luce arancione, sempre più mite, illumina ancora il cielo. Trovo il coraggio di leggere le altre pagine.
“Ho avuto una vita felice. Due bellissimi figli e un marito che mi ha amata come amano i bambini. Purtroppo adesso non riesco ad essere più serena. Mi sento un peso per voi, ma soprattutto, il mio corpo è un peso per la mia anima. Mi tormento perché non riesco più a fare le cose più semplici come cucinare, stendere il bucato, avvitare la Moka o andare in bicicletta. Presto non riuscirò più a scrivere, a sorridere, a darvi una carezza con la mano aperta, forse nemmeno a parlare. Per me questo non si può chiamare vivere. Mi sto spegnendo giorno dopo giorno e vedo voi soffrire a causa mia. Per quanti sorrisi indossiate, riesco ancora a capire dai vostri occhi quanto state soffrendo.”
Mi accorgo che si è fatto tardi, perché il buio non mi consente più di leggere. Prendo il cellulare che mia nipote Chicca si sforza di insegnarmi ad usare. Non c’è campo. Ma prima di rientrare accendo la torcia di questo ultra moderno aggeggio, quella ho imparato a usarla.
“Ho deciso che appena troverò un po’ di coraggio andrò alla grotta del Turco e mi lascerò andare tra le onde. Non esiste altro posto che vorrei vedere come ultima cosa. Scendendo quei gradini al centro della montagna spaccata, avrò modo di rivivere i nostri ricordi più felici.
Vi chiedo di non essere tristi per me. Sì, ho paura di morire, ma ho più paura di vedere giorno dopo giorni la malinconia nei vostri sguardi, sapendo di esserne io la causa. Non ho rimpianti e voglio andare via prima che questa maledetta SLA mi svuoti di tutte le piccole cose che amo. Vi chiedo solo di continuare a essere uniti e di badare uno all’altro, sempre.”
Talmente preso dalla lettura non mi ero accorto della mano di Paola sulla mia spalla. Rimetto in fretta i fogli dove li ho trovati. Credo che lei abbia visto, ma magari per stavolta non mi chiede nulla.
«Papà andiamo?»
«Non mi ero accorto che era così tardi.»
«Tranquillo.»
«Domani vorrei tornare di nuovo.»
«Certo.»
Paola mi prende sotto il braccio, la guardo e mi accorgo che ha lo stesso sguardo complice che aveva sua madre. In lontananza vedo il lido completamente al buio.
«Ma Giovanni ha chiuso?»
«No, c’è un black out.»
«Passiamo da lui, magari gli do una mano. Ti ho mai detto che da ragazzo ero un elettricista?»