Ci sono tre cose che amo del mio lavoro. Il parcheggio riservato per la mia Dodge Durango all’ingresso del capannone; il mio vestito Armani da tremila euro; e osservare le facce angosciate degli operai che si affrettano per non arrivare in ritardo.
Come ogni mattina, sono il primo ad arrivare. Be’, in realtà è un primato ad ex aequo. Perché Marta arriva con me.
«Che impegni ho stamattina?» le chiedo prima di andare ad attivare il quadro elettrico.
«Video call con Tokyo alle sette. Il commercialista alle nove. Riunione con asterisco alle undici con il consiglio di amministrazione.»
«Non capisco perché mio padre non ti ha mai sposata?»
«Perché gli bastava scoparmi nei viaggi di lavoro e che gli organizzassi le giornate» mentre lo dice si sistema con cura il nuovo carré e alza il reggiseno per sistemarsi il seno enorme. Mi guarda con i suoi occhi vispi e fa una smorfia con la bocca. Con quei gesti ribadisce che è ancora una strafica da paura.
«Un genio!» le dico scuotendo l’indice puntato verso il tetto del capannone, «comunque alle undici…»
«Già lo sapevo,» fa spallucce, «Fiorentina-Napoli stasera, figurati.»
«Mi vuoi sposare?» le dico inginocchiandomi.
«Sei pazzo. Non ho sposato il boss, mi accontento del figlio scemo?»
Dopo il nostro siparietto mattutino, Marta va a preparare il primo caffè di giornata. L’unico che beviamo insieme nel mio ufficio. Dall’ingresso del primo operaio mi immergo nel lavoro.
La video call con il partner giapponese fila liscia. Anche quest’anno ci rinnovano tutti gli ordini. Guardo l’orologio e non vedo l’ora che Marco porti i report del primo trimestre.
«Dottor Guarino, è arrivato il dottor Celentano» mi annuncia Marta dall’interfono.
«Lo faccia accomodare subito.»
Mi sistemo il nodo della cravatta.
«A tal proposito dottore, le ho preparato la borsa per il viaggio nello spogliatoio.»
«Perfetta come sempre» affondo la schiena nella mia poltrona di pelle e accendo un sigaro.
Il dottor Marco Celentano entra nella stanza con un sorriso che va da parete a parete.
«Buongiorno Claudio» mi saluta in modo informale.
Gli faccio segno di chiudere la porta.
«Pippa fa ambress che ce n’amma fuje» gli dico passandogli un sigaro.
Marco prende il sigaro e se lo infila nel taschino della giacca.
«Che vuoi? Tua sorella a forza voleva venire anche lei qui stamattina.»
«Vabbè le hai fatto vedere i risultati? È cuntent?»
«E vir tu. Più 28% in un semestre. L’accordo con i giapponesi vi farà chiudere con quattro milioni di fatturato in più» mi risponde con un’espressione lusinghiera.
«Senti ma chi viene con noi?» gli chiedo cambiando in fretta argomento.
«Tengo una sorpresa bellissima» prende tempo per aumentare il pathos. «Il Primitivo è dei nostri!»
«Uà, e giura!» gli rispondo sgranando gli occhi.
Marco si mette la mano sul cuore, io mi sfrego le mani. Gennaro Esposito è un nostro amico sin dai primi tempi in curva. Tutti lo chiamano il Primitivo per il suo aspetto fisico, un metro e novanta per centotrenta chili ben proporzionati. «Le mie mani sono armi letali» così si presentò la prima volta che lo vedemmo. In dieci anni di trasferte imparammo che era davvero così.
Andiamo nello spogliatoio e ci cambiamo in due minuti. Da lì usciamo per la scala antincendio e ci infiliamo nella sua macchina. Da Arzano arriviamo al Rione Alto impiegandoci troppo tempo. Raggiungiamo il Primitivo all’autolavaggio dove lavora. Appena ci vede fa un cenno al suo datore di lavoro, lascia gli stracci a un bengalese accanto a lui e si catapulta in macchina con la tuta ancora bagnata. Salvatore, il cugino di Marco, ci aspetta invece alla fermata della metro Montedonzelli. Già da lontano ci accorgiamo che non stai nei panni per la sua prima trasferta.
«Siamo un po’ in ritardo sulla tabella di marcia. Quindi non riusciamo a raggiungere il raduno con il gruppo a Fuorigrotta» dice Marco.
«Se andavamo con la mia macchina li potevamo acchiappare.»
È l’unica frase che ha detto Salvatore da quando siamo partiti. Noi tre veterani delle trasferte ci mettiamo a ridere quando il primitivo gli dà un leggero scappellotto che quasi gli fa fare testa e finestrino.
«Che ore sono?» chiede il Primitivo.
«Quasi le tre» risponde Marco.
«Fermati alla Macchia, ho delle buone sensazioni» dice il nostro gigante mentre sgranchisce spalle e collo.
Ogni volta che andiamo in trasferta ci fermiamo ad almeno un autogrill su tre. L’adrenalina di beccare qualche tifoso del Frosinone, della Lazio, delle Roma, persino di Ferentino ci elettrizza.
Il Primitivo di solito ha un sesto senso per queste cose, ma a questo giro evidentemente si è sbagliato. Nell’autogrill praticamente vuoto offro il pranzo ai miei amici e mi allontano per una lunga pisciata. Salvatore viene con me. Non so perché ma gli piace pisciare in compagnia. La mia vescica è più piena del previsto. Per reggere gli amminoacidi e la dieta proteica bevo quattro litri d’acqua al giorno.
«Marò c puzz. Che cazzo ti mangi?» mi dice Salvatore mentre si chiude la patta e si avvia a raggiungere gli altri.
«Risotto con gli asparagi… aspe, arò vaje? Devo ancora scorreggiare!» gli dico, ma lui esce mostrandomi il dito medio.
Mentre mi lavo le mani sento da lontano i rumori della festa. Mi affretto a uscire, il richiamo dei cori dei bergamaschi ha su di noi lo stesso effetto del canto delle sirene per Ulisse.
Nel piazzale del parcheggio una nuvola di fumogeni è già esplosa. Sono in ritardo. Lancio lo sguardo verso il Primitivo che tiene già due dei loro per il collo. Li suona come i piatti della banda di paese. Salvatore usa la sua solita tecnica. Si avvicina al gruppo avversario a grande velocità, dà un calcio in petto a qualcuno e poi si allontana con il passo di una gazzella. Mi avvicino alla macchina.
«Muoviti che siamo già in inferiorità!» mi urla Marco mentre mi passa la cazzottiera.
«Dammi anche la lama.»
Afferro il serramanico e lo infilo nella tasca di dietro. Nel nostro codice lo usiamo solo se qualcuno di loro fa lo stronzo per primo o con qualche sbirro di vecchia conoscenza.
Infilo la cazzottiera nella mano sinistra e vedo Marco fare lo stesso. Ci scambiamo uno sguardo di intesa e baciamo le nocche dorate. La nebbiolina è un po’ più fitta. Riesco nel caos a scorgere il primitivo che continua ad ammucchiare dei ragazzetti uno sopra l’altro. Il fatto di confrontarci con una trentina contro quattro mi eccita. Sarà un’altra avventura da riportare sul diario della gloria. Allungo lo sguardo e vedo una coppia con un bambino correre in macchina. Mi piace il fatto che incutiamo timore, di fondo è l’altra faccia del rispetto. Penso che avvertiranno la polizia, a occhio e croce abbiamo un quarto d’ora per sistemare la faccenda.
«Ma che gruppo è?» mi chiede Marco mentre corriamo al centro della ressa.
«Non di quelli famosi. Quindi dobbiamo dargli una lezione.»
Mentre corro vedo un ragazzetto steso in terra che si trascina a fatica sull’asfalto. I pantaloni sono bagnati sul cavallo. Il novellino non ha retto la pressione. Lo ignoro, aumento la falcata verso Salvatore che nel frattempo fugge da due nazi con i manganelli. Devono essere i capi brigata.
«Oh finalmente!» urla il Primitivo dall’altro lato del piazzale «altri due minuti e non trovavate nemmeno gli avanzi.»
Uno dei due nazi si accorge che mi avvicino e si dirige verso di me. Io mi accorgo che non è un manganello, ma una mazza da baseball, quando prova a fare un fuoricampo con la mia testa. Mi abbasso e gli sferro un sinistro metallico sotto il mento. L’energumeno fa una capriola all’indietro e io mi gusto il sangue che mi è finito in bocca. Prendo la sua mazza e mi avvicino a Salvatore.
L’altro nazi deve averlo preso nelle gambe. Perché la corsa non è più fluida. Da gazzella a cagnolino zoppo è un attimo.
«Pezzo di merda!»
Mentre mi avvicino roteando la mazza tra le mani, lui caccia quindici centimetri di lama. Arresto l’incedere e aspetto che sia lui ad avvicinarsi. Un botto forte ci distrae entrambi. Guardiamo verso il piazzale, il pisciasotto ha cacciato la pistola sparando un colpo in aria. Il nazi mi guarda e rinfodera la lama. Il messaggio di fine delle ostilità mi è arrivato forte e chiaro. Guardo di nuovo verso il Primitivo. Anche lui si è fermato. Ma non riesco più a vedere Marco.
«Oh Marco? Dove cazzo sta Marco?» urlo verso il nostro gigante che allarga le braccia perplesso.
I bergamaschi battono la ritirata. Il nazi che fino a un secondo prima stava per affrontarmi prende la pistola da mano al pisciasotto e gli sferra un calcio nella pancia. Il fumo pian piano si dirada. Riesco allora a vedere pochi metri più avanti Marco steso a terra. Mi avvicino.
«Marco…» dico.
No. Marco.
No.